Protagonisti del nostro test il modello originale dell’epoca e il moderno su base S-Way, completi di semirimorchi carichi. Per raccontarvi sensazioni vere
Nostalgia canaglia! Non è solo il titolo di una canzone, ma la motivazione che ci ha spinto a mettere in piedi questa operazione un po’ folle: riportare L’Iveco Turbostar sulle strade che lo videro protagonista da nuovo, ormai una quarantina d’anni fa, e che erano il teatro delle prove di tuttoTrasporti all’epoca. In particolare il Passo del Bracco, un passaggio epico del nostro vecchio percorso, sulla statale SS1 Aurelia nell’entroterra ligure. Era da un pò che ci frullava in testa quest’idea, da che l’Iveco ha presentato la serie speciale Turbostar del suo S-Way, ammiraglia odierna da 13 litri e 570 CV, così come lo era nel 1989 il 190.48, il quarto della saga Turbostar cominciata nell’84 con i 190.42 e 190.33, poi 190.36, allorché il suo V8 biturbo 17 litri guadagnò pure l’intercooler.
Cominciamo bene! Certo arrivare all’appuntamento con l’aggancio del nostro attuale semirimorchio, il Viberti telonato giallo, e vedere Ezio Camusso, riferimento Iveco per le prove stampa, che traffica sulla scatola dei fusibili del vecchietto per ripristinare un faro “accecato”, non è tranquillizzante, visto che ci aspettano quasi 400 km di guida. Rassicura il fatto che lui, quando ancora aveva i calzoni corti, lavorava proprio sulla linea di montaggio dei Turbostar a Torino: anni Ottanta pieni di tutto, giovinezza compresa, per noi e per il camion. Ora che siamo diventati grandi insieme, io e Ezio, a botte di Trans Euro Test e varie altre avventure, ci guardiamo negli occhi e ci viene il dubbio di averla fatta troppo facile stavolta. Questo 190.48 l’Iveco l’ha comprato per affiancarlo quasi staticamente all’omonimo S-Way durante la promozione di quest’ultimo; a nessuno è venuto in mente di agganciarlo, tanto meno a un semirimorchio carico, per farci centinaia di chilometri. In compenso pure il moderno, coi tubolari cromati dietro gli spoiler della cabina, ci obbliga a qualche cautela. Almeno sono pari anche sotto questo aspetto.
Io col moderno. Comunque, viziato dal privilegio di guidare sempre i camion più nuovi sul mercato e terrorizzato dal dover armeggiare con il famigerato Fuller (dopo oltre vent’anni di cambi automatizzati), io decido di partire a cavallo del Turbostar moderno, lasciando a Ezio l’onore di combattere con quello originario. Facciamo noi l’andatura in tutta scioltezza, con il Cursor 13 che non è capitato spesso di provare finora, che gira pastoso e rotondo senza fatica anche a 44 ton. Continuo a guardare il retrovisore destro per controllare di non perdere l’altro… e me lo ritrovo affiancato a sinistra che azzarda un sorpasso: diavolo di un vecchietto! Ai suoi tempi il limitatore non c’era. Le curve della Serravalle ci accompagnano al mare di Genova: i 60 km/h imposti dalla segnaletica livellano le prestazioni finché non giriamo sulla Riviera di Levante. I saliscendi della A12 sono uno scherzo per i 570 CV dell’S-Way, ma pure il 190.48 tiene sorprendentemente il passo, giusto con un “filo” di fumo: già da nuovo lui non doveva preoccuparsi nemmeno d’essere Euro 0, mentre il suo pronipote rientra in Euro 6 pur essendo il più potente fra i 13 litri in circolazione..
Rombo di tuono. Quando il “nonno” entra in galleria dietro di noi, il rombo del V8 fa tremare i vetri. E probabilmente anche le vene ai polsi di Ezio che lo sta guidando: emozioni alla stato puro. Proseguiamo così fino all’uscita di Deiva Marina, per andare a percorrere la statale Aurelia attraverso il Passo del Bracco. Oggi una strada senza senso per questi bestioni. E meno male, perché se ne incrociassimo un altro, in direzione opposta nel punto sbagliato, sarebbe dura districarsi: non siamo neppure sicuri di passare dappertutto uno alla volta!
Ritorno al futuro. Io nel frattempo ho abbandonato gli agi della modernità per tornare indietro di quarant’anni. La plancia incavata a tre segmenti mi ricorda quella dell’Iveco 370.12.25 carrozzato Padane con cui ho mosso i miei primi passi d’autista di pullman. La posizione di guida è quella tipica del tempo: schiena dritta, gambe a 90° gradi come su una sedia da trattoria. E il bastone del cambio piantato lì a destra pronto a farmi fare figuracce. Ezio cerca di rincuorarmi “che il Fuller è una brutta bestia per tutti”. Io abbozzo, ma prima di capire dove sono davvero le marce, le grattate si sprecano. Poi le trovo, non senza qualche sbavatura e conseguente limatura di ingranaggi. A volte mi devo proprio fermare, ripartire e rimetterle tutte da capo. La prima volta che ci riesco in modo appena dignitoso, quasi mi viene da piangere: che soddisfazione!