Il volto fine con la barba di qualche giorno, i baffoni curati, la maglietta della salute bianca in evidenza sotto la camicia casual. Una goccia di malinconia negli occhi, protetti da occhiali dalla montatura leggera e, soprattutto, lo sguardo che si mostra sempre attento, concentrato. Lo sguardo di chi ascolta e non capisce, ascolta ma non sa se sopravviverà a quell’onda d’urto, alla gogna, al ludibrio. Di chi guardava e si prendeva ciò che desiderava. Le autostrade europee, come nella storia di domenica scorsa, diventano la trappola transnazionale, la scena del crimine dove chi agisce conosce bene quell’incessante fluire di automezzi e indifferenza, un caotico magma di vite e lamiere dove è facile finire inghiottiti e sparire senza che nessuno se ne accorga. Ma Frank Thader, 44 anni, non è Volker Eckert. Certo sono entrambi di origine tedesca, camionisti e serial killer. Ma se Volker caccia prostitute, le adesca, fa salire sulla sua autobotte e le strangola, Frank non distingue, non coglie differenze. Uccide e torna a uccidere in un’incessante sequenza che si ripete e travolge. Accecato dagli impulsi non empatizza con la donna che vede, non percepisce differenze tra lucciole e autostoppiste, non sono esseri umani ma semplici strumenti di piacere, vettori emotivi, detonatori di pulsioni incontrollabili. Il problema è sempre l’ingaggio, il primo contatto: Thader è ingannevole, manipolatorio, suadente. Il volto e i modi sono rassicuranti, il volto innocuo, le espressioni gentili. Non potrebbe mai fare male a nessuno. Si mimetizza nella gentilezza come le trappole trasparenti nell’aria che catturano ignari insetti tese da ragni volanti invisibili. L’autostoppista, invece, è in uno stato di necessità, chiede la cortesia di un passaggio, ha un bisogno che mostra a chiunque passi. E quando sale sul bisonte del camionista assassino, il ristoro di aver trovato qualcuno che l’aiuta, la pervade. Calano le difese, si cerca un dialogo, si incontra la morte. Solo che Thader è un serial killer con un potenziale criminale ancor peggiore – se possibile – del collega Volker.
Certo, anche lui divora migliaia e migliaia di chilometri di asfalto tra Italia, Spagna, Germania ed Europa dell’Est ma il rito viene prima di tutto. Un rito che ripete con ogni vittima: abusi sessuali e strangolamento. Dopo però, a differenza di quanto faceva Volker, il cadavere non viene abbandonato in un dirupo o ai bordi dell’autostrada. Almeno non sempre. In diversi casi, Thader trattiene con sé il corpo per giorni. Divide l’abitacolo, la sua minuscola casa viaggiante con la vittima senza vita. La osserva, magari ci parla, la custodisce visto che essa stessa diventa il feticcio per rievocare quanto consumato. Volker tagliava un ciuffo di capelli, un pezzo del vestito, scattava qualche foto e abbandonava il corpo per riaccendere il motore e ripartire a caccia di altre donne. Thader, invece, non buca la bolla folle nella quale ha bisogno di ossigenarsi con il cadavere dietro steso sulla brandina della motrice. Non percepisce l’atrocità dell’omicidio, l’enormità nera di quel vagare per l’Europa con un cadavere nel camion. Non distingue concentrato e chiuso com’è nel suo piacere che divora ogni realtà e modella l’immaginario calandolo nella quotidianità. La deriva si riprende con la necessità di una nuova pianificazione, un’ulteriore battuta di caccia. Perché quest’uomo altro non sa fare. Se lo ricordano ancora in Sassonia nell’ex DDR quando da adolescente era iroso, violento, aggressivo. Lui replica quanto compie fin da ragazzo nella Germania comunista. Cercava di abusare ragazze per ottenere piacere, la prima vittima scoperta a 15 anni, quando l’aggredì e la portò dietro un cespuglio. Cinque le condanne inflitte per reati sessuali. A 19 anni viene fermato dalla polizia dopo aver picchiato una giovane mamma che aveva resistito alle sue molestie. Thader reagisce, alza le mani. Non percepisce quanto accade, non si rende conto, nemmeno vede che questa mamma stava portando un bimbo col passeggino. Il piccolo piange, strilla terrorizzato ma lui non se ne rende conto, non dà importanza, non se ne cura.
Nei serial killer come lui, c’è sempre una storia prima e una storia dopo. C’è sempre un’asticella criminale che si alza sempre di più. C’è sempre una progressione di violenze e abusi sotto gli occhi di tutti ma non di quelli che, evidentemente, dovrebbero bloccarla. Thader non si ferma con una semplice detenzione e un generico percorso di recupero. Chiede un approfondito cammino che permetta la scarcerazione solo quando con sicurezza cessa la pericolosità sociale. Non prima. Invece, dopo la mamma aggredita per strada, tenta di strangolare una ragazza, picchia senza pietà un’altra donna e, infine, abusa una ragazzina, travolto da quelle pulsioni che segneranno ogni azione, ogni aggressione, ogni omicidio. Pulsioni, quindi, che non solo caratterizzano il suo agire ma condizionano anche e fortemente il carattere, l’indole. Come se il camionista patisse proprio una parte di sé in questo quadro schizofrenico paranoide, davanti a chi lo interroga rivela una modesta struttura psicologica, una personalità silente, remissiva e rassegnata. Non confessa subito, come al contrario fanno diversi altri serial killer, ma tradisce la verità in modo plateale. Infatti, al primo interrogatorio nell’inchiesta su quelle morti, quando il magistrato lo incalza, gli chiede se in passato avesse già ucciso lui esita un attimo. Sta per parlare ma poi rimane muto: momenti interminabili che danno un peso di colpevolezza a quel silenzio. Dopo dieci ore, crolla, esausto e rassegnato confessa. Da parte sua, la polizia aveva già raccolto una serie robusta di indizi e prove, partendo dall’incrocio classico di quelle tracce che chiunque lascia, entrando in autostrada. Ecco allora i passaggi ai caselli autostradali, la Viacard, gli Ecopunti, incrociati con i tabulati dei cellulari: un’infinità di dati verificati con i primi programmi idonei a scremare tra gli indiziati per ridurre la rosa dei potenziali assassini. A suggellare la colpevolezza arrivò poi l’esito positivo dalle diverse tracce di dna raccolte, i residui organici che indicavano con certezza che Thader aveva fatto salire sul tir più di una delle donne ritrovate strangolate nelle campagne.
Per incrociare la vittima numero uno bisogna risalire al primo maggio del 1999, quando la ceca Anna Kolarowa, 31 anni, fa autostop lungo l’autostrada del Brennero. L’assassino la uccide nel suo camion per poi superare il confine con il cadavere ancora nella cuccetta. Se ne libererà solo in Baviera. Passa un anno e mezzo e dopo Anna tocca a una ragazza austriaca di appena 19 anni. È il 5 novembre 2000 quando Carmen Wieser, supera il confine con l’Italia per una serata tra bar e osterie con le amiche. Voleva festeggiare e divertirsi ma la serata si trasforma in incubo. Dopo aver conosciuto due ragazzi in un locale e aver bevuto un po’ troppo, non sa come liberarsi dalle avances sempre più insistenti di questi “nuovi amici” e quindi chiede un passaggio in strada ai camionisti che stavano transitando. Tra loro spunta Thader che se la porta via sul suo tir. Il serial killer confesserà: «Ci siamo toccati, ma lei ha rifiutato il rapporto completo perché ero senza preservativo». In realtà, dopo averla violentata e strangolata, l’assassino adagiò il cadavere nella cuccetta per coprirlo con una coperta e poi abbandonarlo nelle campagne vicino a Bolzano. Il corpo venne ritrovato seminudo in fondo a una roggia, naso e bocca chiusi con nastro isolante. Sul collo c’erano ancora i segni dello strangolamento.
All’inizio gli inquirenti si fecero depistare dalla felpa che la giovane indossava: era quella da lavoro dei pochi dipendenti di un negozio di noleggio di sci in Alto Adige. Il dettaglio portò in carcere Florian Sulzenbacher, 31 anni. Quella sera, lui conobbe e corteggiò Carmen, ballarono insieme in discoteca e a fine serata andarono a casa di Sulzenbacher. Lì secondo le ricostruzioni degli investigatori, proprio lui, insieme a un amico mai identificato, cercarono di abusare dell’austriaca. Agli atti rimane l’audio di una telefonata partita dal telefonino dell’austriaca nella quale la si sente esclamare: «lasciatemi, maiali» con in sottofondo la voce di Florian. Poi la situazione era precipitata con Carmen che esce per chiedere aiuto ai camionisti in transito. Per alcuni minuti Florian la segue, cerca di convincerla a tornare, ma la ragazza non arretra. A quel punto, il giovane le lasciò la felpa per poi tornare nell’appartamento. Per due anni e mezzo Florian, rimase in carcere fino alla confessione del serial killer che frantumò così ogni prova contro di lui. La vittima successiva si chiamava Albana Celmeta, prostituta albanese di 23 anni, ritrovata senza vestiti da alcuni bambini che giocavano nei giardinetti di un piazzale nel maggio 2001 a Piombino Dese, in provincia di Padova. Il camion di Thader era passato lì per una consegna. Nella cuccetta, il dna della ragazza.